Il paese li assolve, il parroco riflette: uno choc, difendono i propri figli da Il Corriere della sera
Alle undici del mattino i tre adolescenti giocano a biliardo allo Zanzibar, un bar sul corso del paese: Marco, Simone e Stefano hanno, a guardarli, qualche anno in meno di quegli otto che due anni e mezzo fa stuprarono una coetanea in una pineta, per tre ore; e infatti dicono che «li conosciamo eccome, Tevez, Buddha, anche gli altri, sono a posto, non hanno alcun bisogno di stuprare ragazze, non è vero niente, piuttosto lei, che quello stesso pomeriggio, prima della festa, era andata con un altro... ». Comincia da qui - un bar con un biliardo e tre adolescenti lontani dalla scuola - il viaggio nel paese che difende gli aggressori e insulta la vittima: sarà lungo, ore e ore a parlare con la gente, e il risultato, alla fine, è quello. «Colpa di lei». Oppure: «Lei di certo non è una seria». O anche: «Ma se l’aveva già fatto con altri quattro... ». Gli aneddoti, a Montalto di Castro, riguardano una ragazzina violentata.
Alto Lazio, giornata così cristallina che in lontananza si vedono qua l’Argentario e là Capalbio, una meraviglia: e anche il paese è carino, con la sua piazza Padella, via dell’Ospizio, le sue trattorie, il corso, il castello, poche macchine. Tutto illuminato dal sole. Una meraviglia. E anche le persone sono cortesi, disponibili, gentili. I ragazzi - dai quindici ai venti, ventidue - si ritrovano al bar Oasi o al bar del Corso, il pomeriggio: sono lì a ridere e fare battute, fumare sigarette, indicare ragazze. Lì vanno anche Marco, Simone e Stefano: chiamano al telefonino uno degli otto aggressori - che per due anni e mezzo saranno «messi in prova» dal Tribunale dei minori, se la superano il reato è estinto - e spiegano che un giornalista vorrebbe parlargli. Quello, Alberto, dice una cosa sola: «Non voglio problemi, se gli avete dato il mio numero ditegli di cancellarlo». I problemi, questi otto ragazzi dello stupro in pineta su una quindicenne, sperano di averli superati, adesso. Di certo, non solo i loro coetanei ma il paese tutto li difende. Giovani, anziani, anche le donne. E nel difenderli - quasi inevitabilmente - accusano la ragazzina. Dice Vittorio Bricca, pensionato settantenne seduto in piazza alla fine del Corso: «Avessi avuto diciassette anni, mi sarei messo in fila e anch’io sarei andato con quella». Ecco, lo fanno in molti: la vittima, la chiamano «quella». «Ma questi ragazzi mica sono romeni, che picchiano e uccidono». Stupratori gentiluomini. «No davvero, avranno pure sbagliato ma mica si possono rovinare la vita. Tutte queste parlamentari che parlano, accusano, ma questi ragazzi una sera j’è capitata ’sta cosa ... ». Capitata. Poi dice una frase a forma di battuta, parecchio crudele: «Non tutti i mali vengono per nuocere, adesso quella fija troverà un lavoro...». Invece, in questa storia, sono i maschietti ad aver trovato lavoro: non tutti, ma molti degli otto adesso, dopo questa storiaccia di violenza, hanno avuto la solidarietà del paese, ricevuto offerte. Racconta Venanzia Piras, della trattoria all’ingresso del paese: «Mio genero ne ha preso uno a lavorare, fa il muratore, e lui gliel’ha detto, proprio l’altra sera, l’ha rimproverato, ma quel ragazzo ha detto che la ragazza era ubriaca e che loro, sì, avevano sbagliato... Io non so come siano andate le cose, ma certo se lei si pente solo il giorno dopo...». La giornalaia - «non metta il mio nome per carità, in questa storia meglio non esporsi» - è l’unica che dice qualcosa di difficilmente contestabile: «Hanno sbagliato, che paghino». Poi, certo, anche lei ribadisce che «sono ragazzi bravissimi, e bravissime sono le famiglie. Su quei giovani metto la mano sul fuoco, sulla ragazza non so...». Poco distante c’è un posto di blocco, il carabiniere non è molto alto, mezza età, «un appuntato. Perché tutti difendono gli aggressori? Fatevi qualche domanda: perché la ragazza non ha strillato, quella notte? E perché ha parlato dopo un mese?». Sono molte le risposte possibile, quando si ha a che fare con la psiche di una ragazzina che ha subìto violenza. «E comunque quelli sono bravi ragazzi», aggiunge. Il maresciallo lì vicino - viso pulito, bel sorriso scuote la testa: «Proprio bravi ragazzi, alla luce di quello che hanno fatto, non si può dire». A metà giornata dunque, all’inizio del paesino, dopo aver parlato con giovani, donne, uomini e anziani, per la prima volta qualcuno pronuncia quella frase: «Bravi ragazzi, non si può dire».
Montalto di Castro ha «sei-settemila anime - racconta Padre Eduardo, argentino, parroco di Santa Maria Assunta - e capisco che si possa avere quell’impressione, che tutti si preoccupino degli aggressori e nessuno della vittima. Ma, innanzitutto la ragazza non vive qui ma in un altro paese. E poi, secondo me, il discorso è un altro: visto che quei ragazzini non avevano precedenti erano considerati ragazzi normali, di buona famiglia, ed ecco che ciò che è accaduto è stato uno choc per tutti, ogni famiglia ha cominciato a pensare che una storia così poteva capitare a chiunque, anche al proprio figlio. Per questo tutti hanno cercato di essere vicini a questi ragazzi, hanno dato solidarietà, e lavoro». Mentre la vittima, una ragazzina che all’epoca dei fatti aveva quindici anni, in un paese molto vicino, è lì che cerca un lavoro senza trovarlo. Invece qui, i «bravi ragazzi» vanno a scuola, lavorano, si vedono con gli amici. Raccontano ciò che vogliono. Quei tre ragazzini che giocavano a biliardo, ad esempio, non hanno dubbi: «Lei s’è inventata tutto». E giù aneddoti, su di lei.
Alessandro Capponi
Alle undici del mattino i tre adolescenti giocano a biliardo allo Zanzibar, un bar sul corso del paese: Marco, Simone e Stefano hanno, a guardarli, qualche anno in meno di quegli otto che due anni e mezzo fa stuprarono una coetanea in una pineta, per tre ore; e infatti dicono che «li conosciamo eccome, Tevez, Buddha, anche gli altri, sono a posto, non hanno alcun bisogno di stuprare ragazze, non è vero niente, piuttosto lei, che quello stesso pomeriggio, prima della festa, era andata con un altro... ». Comincia da qui - un bar con un biliardo e tre adolescenti lontani dalla scuola - il viaggio nel paese che difende gli aggressori e insulta la vittima: sarà lungo, ore e ore a parlare con la gente, e il risultato, alla fine, è quello. «Colpa di lei». Oppure: «Lei di certo non è una seria». O anche: «Ma se l’aveva già fatto con altri quattro... ». Gli aneddoti, a Montalto di Castro, riguardano una ragazzina violentata.
Alto Lazio, giornata così cristallina che in lontananza si vedono qua l’Argentario e là Capalbio, una meraviglia: e anche il paese è carino, con la sua piazza Padella, via dell’Ospizio, le sue trattorie, il corso, il castello, poche macchine. Tutto illuminato dal sole. Una meraviglia. E anche le persone sono cortesi, disponibili, gentili. I ragazzi - dai quindici ai venti, ventidue - si ritrovano al bar Oasi o al bar del Corso, il pomeriggio: sono lì a ridere e fare battute, fumare sigarette, indicare ragazze. Lì vanno anche Marco, Simone e Stefano: chiamano al telefonino uno degli otto aggressori - che per due anni e mezzo saranno «messi in prova» dal Tribunale dei minori, se la superano il reato è estinto - e spiegano che un giornalista vorrebbe parlargli. Quello, Alberto, dice una cosa sola: «Non voglio problemi, se gli avete dato il mio numero ditegli di cancellarlo». I problemi, questi otto ragazzi dello stupro in pineta su una quindicenne, sperano di averli superati, adesso. Di certo, non solo i loro coetanei ma il paese tutto li difende. Giovani, anziani, anche le donne. E nel difenderli - quasi inevitabilmente - accusano la ragazzina. Dice Vittorio Bricca, pensionato settantenne seduto in piazza alla fine del Corso: «Avessi avuto diciassette anni, mi sarei messo in fila e anch’io sarei andato con quella». Ecco, lo fanno in molti: la vittima, la chiamano «quella». «Ma questi ragazzi mica sono romeni, che picchiano e uccidono». Stupratori gentiluomini. «No davvero, avranno pure sbagliato ma mica si possono rovinare la vita. Tutte queste parlamentari che parlano, accusano, ma questi ragazzi una sera j’è capitata ’sta cosa ... ». Capitata. Poi dice una frase a forma di battuta, parecchio crudele: «Non tutti i mali vengono per nuocere, adesso quella fija troverà un lavoro...». Invece, in questa storia, sono i maschietti ad aver trovato lavoro: non tutti, ma molti degli otto adesso, dopo questa storiaccia di violenza, hanno avuto la solidarietà del paese, ricevuto offerte. Racconta Venanzia Piras, della trattoria all’ingresso del paese: «Mio genero ne ha preso uno a lavorare, fa il muratore, e lui gliel’ha detto, proprio l’altra sera, l’ha rimproverato, ma quel ragazzo ha detto che la ragazza era ubriaca e che loro, sì, avevano sbagliato... Io non so come siano andate le cose, ma certo se lei si pente solo il giorno dopo...». La giornalaia - «non metta il mio nome per carità, in questa storia meglio non esporsi» - è l’unica che dice qualcosa di difficilmente contestabile: «Hanno sbagliato, che paghino». Poi, certo, anche lei ribadisce che «sono ragazzi bravissimi, e bravissime sono le famiglie. Su quei giovani metto la mano sul fuoco, sulla ragazza non so...». Poco distante c’è un posto di blocco, il carabiniere non è molto alto, mezza età, «un appuntato. Perché tutti difendono gli aggressori? Fatevi qualche domanda: perché la ragazza non ha strillato, quella notte? E perché ha parlato dopo un mese?». Sono molte le risposte possibile, quando si ha a che fare con la psiche di una ragazzina che ha subìto violenza. «E comunque quelli sono bravi ragazzi», aggiunge. Il maresciallo lì vicino - viso pulito, bel sorriso scuote la testa: «Proprio bravi ragazzi, alla luce di quello che hanno fatto, non si può dire». A metà giornata dunque, all’inizio del paesino, dopo aver parlato con giovani, donne, uomini e anziani, per la prima volta qualcuno pronuncia quella frase: «Bravi ragazzi, non si può dire».
Montalto di Castro ha «sei-settemila anime - racconta Padre Eduardo, argentino, parroco di Santa Maria Assunta - e capisco che si possa avere quell’impressione, che tutti si preoccupino degli aggressori e nessuno della vittima. Ma, innanzitutto la ragazza non vive qui ma in un altro paese. E poi, secondo me, il discorso è un altro: visto che quei ragazzini non avevano precedenti erano considerati ragazzi normali, di buona famiglia, ed ecco che ciò che è accaduto è stato uno choc per tutti, ogni famiglia ha cominciato a pensare che una storia così poteva capitare a chiunque, anche al proprio figlio. Per questo tutti hanno cercato di essere vicini a questi ragazzi, hanno dato solidarietà, e lavoro». Mentre la vittima, una ragazzina che all’epoca dei fatti aveva quindici anni, in un paese molto vicino, è lì che cerca un lavoro senza trovarlo. Invece qui, i «bravi ragazzi» vanno a scuola, lavorano, si vedono con gli amici. Raccontano ciò che vogliono. Quei tre ragazzini che giocavano a biliardo, ad esempio, non hanno dubbi: «Lei s’è inventata tutto». E giù aneddoti, su di lei.
Alessandro Capponi